martedì 8 dicembre 2009

Noi e i nostri figli

In questi ultimi giorni il caso ha messo sul tappeto quasi contemporaneamente, come a volte fa, tre carte interessanti, su cui a mio avviso è importante richiamare l’attenzione e sollecitare la riflessione.
La prima è rappresentata dalla lettera aperta di Pier Luigi Celli al figlio, pubblicata su Repubblica il 30 novembre scorso; la seconda è l’articolo a firma Francesco Giavazzi sulla famiglia come unico e vero welfare italiano, apparso sul Corriere della Sera il 29 novembre; l’ultima è l’annuale rapporto del Censis sulla situazione della società nel nostro paese.


Sulla lettera di Celli mi permetto di ampliare qui quello che ho già scritto su un post che ho pubblicato sul sito di Repubblica il giorno dopo la pubblicazione dell’articolo. Trovo disgustoso che una persona che ha fatto parte ai massimi livelli di un sistema (descritto dallo stesso Celli come basato non sul merito ma sulla appartenenza a questo o quel gruppo sociale e politico) non sappia suggerire altro al proprio figlio (e attraverso di lui a tutti i giovani italiani) che la fuga all’estero come unica soluzione. Io nella sua lettera non riesco a leggere nessun cenno di assunzione di responsabilità, nessun pentimento, nessuna volontà di cambiare le cose, e neppure nessun accenno a un gesto di protesta plateale contro tale sistema (che ne so, per esempio le dimissioni da Direttore Generale della Luiss, carica attualmente coperta da Celli). No, le responsabilità della situazione sembrano essere sempre e solo di altri, sono irrintracciabili in quanto scritte nel nostro DNA, e quindi la situazione non è sanabile, al punto che l’unica soluzione è andarsene.
Buona parte dei post pubblicati da Repubblica (quasi tutti firmati con nickname di fantasia, quasi che gli autori si vergognassero di quello che stavano scrivendo) sposano senza esitazione questa “analisi” (chiamiamola così) e approvano il rimedio proposto (aggiungendo a seconda dei casi il racconto del proprio successo all’estero o del proprio fallimento in Italia).
A me sembra che in questo sfogo sia implicito e non detto un atteggiamento davvero arretrato: ossia che la vita in generale (e la vita lavorativa in particolare) siano degne di essere veramente vissute solo se condotte nei pressi del nido materno/paterno, e che ogni allontanarsi da esso sia un qualcosa di negativo: si può tollerarlo e accettarlo in via temporanea, ma poi bisogna sempre tornare alla base.
E qual è questa base? Come scrive Giavazzi in una analisi molto più seria e pacata, commentando il libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino L’Italia fatta in casa, è la famiglia.
Giavazzi a dire il vero articola il suo discorso sul senso in Italia del welfare state: la sua tesi è che in Italia una forma realmente efficiente di welfare state non ha mai preso piede perché non ne abbiamo sentito la necessità, e non ne abbiamo sentito la necessità perché tutti o quasi i compiti che in altre società sono stati almeno parzialmente spalmati su istituzioni pubbliche di vario tipo noi li abbiamo affidati alla famiglia.
Dalla cura dei neonati all’assistenza agli anziani, gli aspetti chiave della vita umana sono da noi istintivamente gestiti all’interno del gruppo familiare: ovvio quindi che anche il passaggio chiave della vita lavorativa (l’assunzione e in particolare la prima assunzione) venga perciò affrontato cercando in primo luogo aiuto e appoggio nella famiglia e quindi nei contatti e nelle amicizie che la famiglia ha saputo costruire nel tempo, generando come conseguenza ultima il fenomeno della raccomandazione e dello scarso riconoscimento del merito di cui tanto si lamentava Celli nella sua lettera.
Il merito del discorso di Giavazzi, a mio avviso, sta nel non abbracciare a questo punto la solita moralistica interpretazione per la quale in Italia domina un atavico “familismo amorale”, per cui noi saremmo i “cattivi” mentre gli altri (soprattutto gli anglosassoni) sarebbero i “buoni”, ma nel riconoscere che anche il sistema italiano va valutato in modo oggettivo soppesandone i meriti e i punti deboli. Da un lato il calore umano, la solidarietà, i valori umani; dall’altro la tendenza all’immobilismo, la chiusura, i costi più elevati.
Un esempio tra i tanti possibili: la difesa a oltranza del posto fisso, voluta dai sindacati in tutti questi anni, ha finito per salvaguardare il peso, la compattezza e la forza della famiglia di origine (ossia i genitori, che avevano un lavoro) a costo però di sacrificare i giovani, che non potendo inserirsi facilmente in un mercato del lavoro chiuso al concetto di merito hanno bisogno di aiuto e sostegno; ma questo sostegno a sua volta non è offerto da ammortizzatori sociali pubblici (sussidi di disoccupazione o altro), e quindi i giovani disoccupati devono per forza gravitare attorno alla famiglia, che peraltro non si sottrae a questo compito di supporto, chiudendo così il circolo.
Il limite estremo del sistema si ha forse nel caso della banca del Credito Cooperativo di Roma che ha raggiunto un accordo con i sindacati per facilitare il prepensianamento in cambio dell'assunzione di un parente fino al terzo grado! Leggere qui per credere.
In altre parole, ci sono delle ragioni precise che stanno alla base delle scelte sociali degli ultimi sessant’anni: non è stata una maledizione, non è stato un irrazionale “retaggio del passato”, ma è stata una volontà collettiva che riteneva certi valori più importanti di certi altri.
Quello che deve essere chiaro è che ogni scelta implica dei costi; quello che dovremmo chiederci è se la parcella è diventata troppo salata, ovvero se siamo ancora disposti a pagarla. La generazione dei sessantenni (cui appartiene Celli, guarda un po’!), ossia di coloro che sono nati nell’immediato dopoguerra, ha certamente goduto dei maggiori vantaggi del sistema che ha costruito; la generazione dei cinquantenni, cui appartengo anch’io, ha senz’altro avuto dei vantaggi, ma comincia anche a intravedere i lati negativi del sistema (soprattutto sul versante delle pensioni); la generazione dei quarantenni o dei trentenni probabilmente teme di dover pagare i conti di tutti.
La quantificazione di questi costi sta nel Rapporto Censis, che purtroppo non è affatto di agevole lettura.
L’osservazione finale di Giavazzi, però, merita un’ultima riflessione: i costi maggiori del sistema sono stati scaricati, senz’ombra di dubbio, sulle donne. Le quali hanno accettato, con tutte le conseguenze delle quali si discetta a ogni livello, dalla rubrica sul magazine femminile ai più corposi studi sociologici. Ma perché hanno accettato e ancora accettano? Giavazzi gira la domanda alle dirette interessate, e io penso che potrebbe essere un buon punto di partenza per la discussione, che non sarà né facile né breve.